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Problem solving adattivo

Abbiamo spesso una idea spesso molto semplicistica di cosa voglia dire risolvere un problema.

Tendiamo a pensare in ordine di insieme di passi da fare, quasi un workflow che, da una serie di input, ci porta ad un risultato.

Non è sempre così per i problemi "classici" e, sicuramente, non lo è per quelli che appartengono ad un'altra categoria che necessitano di una approccio adattivo.

Ma facciamo un passo indietro. Iniziamo intanto a dare una definizione piuttosto formale di cosa sia un problema: esso può essere definito come una differenza tra uno stato attuale e uno stato da raggiungere, per il quale non sono disponibili mezzi immediati per ridurla, introducendo quindi una difficoltà nel farlo.

Dal punto di vista cognitivo, un problema ha diverse dimensioni, ovvero:

1) Stato della conoscenza associata:

  • referenziale: tutte le informazioni sono già presenti nella definizione del problema
  • non referenziale: sono necessarie competenze pregresse o informazioni aggiuntive da ricercare.

2) Passi necessari alla sua soluzione:

  • singolo: solo una singola azione è necessaria da eseguire per risolverlo
  • multipli: sono necessarie più azioni

3) Evoluzione degli stati:

  • statico: lo stato del problema cambia solo rispetto alle azioni del risolutore
  • dinamico: lo stato può cambiare per fattori esterni oltre alle conseguenza delle azioni del risolutore

4) Livello di definizione:

  • ben definito: dato un determinato dato, gli obiettivi sono definiti
  • non definito: uno o più stati sono ambigui o sconosciuti

Già da questa scomposizione si vede come ci sia molta più varietà da considerare anche solo nella categorizzazione di un certo problema.

E in questo caso, parliamo di problemi tecnici in cui rimane sufficiente applicare una serie di skill (hard skill, giusto per capirci anche se non mi piace la differenza) per arrivare al risultato voluto. Cucinare una torta è un delizioso esempio di problemi di questo tipo.

Ci sono però classi di problemi in cui questo approccio semplicemente non funziona, anzi adottandolo si finisce in una sorta di girandola infernale, in cui si pensa che sia solo questione di più tempo, più sforzo, più conoscenza (hard skill), più volontà e, invece, più si persevera, più non si ottiene nulla.

Ti faccio un esempio: qualche giorno fa in una sessione di mentoring, un manager che si occupa di progetti a contenuto tecnologico mi ha chiesto aiuto perché non sapeva che cosa studiare del dominio IT (che, come puoi immaginare, è molto vasto) per comunicare meglio con gli sviluppatori con cui deve rapportarsi nei progetti che segue.

Una soluzione "tecnica" poteva essere quella di approfondire le tecnologie utilizzate, filtrare su quella più presente rispetto alle funzionalità e gli obiettivi del progetto e iniziare a studiare qualche guida a riguardo.

Secondo te, questa soluzione avrebbe aiutato davvero il manager in questione?

Se pensi che ci siano altre strade, hai ragione e sono visibili se si inizia a ragionare in maniera adattiva, ovvero a considerare che una soluzione può essere, prima di tutto, un cambio di mentalità e comportamenti, in risposta ad una situazione.

Ci sono varie strategie che puoi adottare, anche congiuntamente, per attivare un problem-solving adattivo, ad esempio:

1) Scaglionare le decisioni: prendere decisioni incrementali per raggiungere un obiettivo ed evitare di impegnarsi totalmente in un approccio che non si può cambiare.

2) Esplorare: utilizzare le informazioni disponibili per cercare una soluzione, anche da fonti non attinenti il dominio del problema.

3) Distribuire il rischio: evitare di prendere decisioni che vincolano a un'unica scelta a meno di non essere pronti a gestirne le conseguenze ipotizzabili.

4) Intuire: cercare opzioni anche basate sulla propria esperienza, valori ed emozioni.

5) Ritardare: procedere con calma e/o rimandare l'impegno di un'azione se non è necessaria una decisione immediata e c'è invece il tempo per sviluppare altre opzioni.

6) Delegare: a volte ci facciamo carico di problemi che non sono nostri o che qualcun altro può risolvere meglio di noi.

7) Guardare avanti: concentrarsi sul futuro per scoprire opportunità e opzioni nascoste che potrebbero risolvere il problema.

Un altro approccio che funziona molto bene è il cosiddetto metodo ideato da Edward DeBono dei Sei Cappelli, abilitante al pensiero laterale e che consiste proprio nell'indossare metaforicamente diversi cappelli colorati, approcciando il problema in una specifica maniera ovvero analitica, emotiva, ottimista, pessimista, creativa e volta all'esecuzione.

Ma questo è solo un esempio, ci sono decine di altre tecniche ed esercizi, alcuni molto semplici ma estremamente efficaci (ad esempio la tecnica dei Cinque Perché) che consentono di "scardinare" la nostra parte analitica, a volte è davvero necessario, e far emergere altre soluzioni.

Risolvere un problema in maniera adattiva è sicuramente più difficile, proprio perché implica spesso il "mettersi in gioco": ritornando al caso del nostro manager, studiare qualcosa è molto più semplice, come atto in sé, che implementare quello che è poi emerso nella sessione, ovvero rendere più partecipi i propri colleghi degli obiettivi di progetto, interagire di più con gli stakeholder e comunicare con le persone tecniche focalizzandosi su ciò che si vuole ottenere piuttosto che sulla parte strettamente tecnica.

Ecco perché, in un contesto organizzativo, è importante che il problem solving adattivo sia incoraggiato, con la consapevolezza che ci vuole tempo per modificare i propri comportamenti e che solo garantendo e promuovendo la sicurezza psicologica si possono ottenere i migliori risultati, perché anche sbagliare fa parte del processo.

Come utile esercizio, pensa a un problema che vuoi risolvere, chiediti se un approccio adattivo ti possa aiutare nel farlo e contattami pure se vuoi approfondire.
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